Cassazione: no al ricorso delle Entrate per le tasse di Vanna Marchi

La vicenda relativa a Vanna Marchi è venuta a galla verso la fine del 2001: è da quel momento, infatti, delle truffe perpetrate mediante le vendite televisive, reati per i quali c’è stata una condanna, della stessa Marchi e della figlia Stefania Nobile, a dodici anni complessivi di reclusione. Ebbene, il nome citato poc’anzi ritorna di stretta attualità, ma in questo caso per una questione relativa al fisco e alle tasse. Che cosa è successo di preciso? La Corte di Cassazione ha provveduto a rigettare il ricorso che era stato presentato dall’amministrazione finanziaria del nostro paese, una richiesta che era stata avanzata al fine di tentare un recupero, seppur parziale, ma comunque sempre consistente, delle imposte dovute dall’imbonitrice della televisione, la quale si trova attualmente nel carcere di Bologna. L’obiettivo dell’Agenzia delle Entrate era abbastanza chiaro in questo senso, ma il modus operandi è stato totalmente sbagliato.

Cassazione: anche gli interessi concorrono a formare il reddito

Il fatto che gli interessi relativi a una mora di pagamento non siano stati percepiti quando si parla di crediti con società dello stesso gruppo, comporta, per il contribuente interessato, un onere nell’ipotesi in cui la mancata contabilizzazione sia evidentemente antieconomica: si tratta di una importante precisazione che è stata effettuata dalla Corte di Cassazione, mediante la pubblicazione di una sentenza dello scorso 7 maggio. La pronuncia della Suprema Corte si era resa necessaria alla luce di una contestazione, da parte della Guardia di Finanza, riguardo degli interessi su crediti nei confronti dei clienti. In quel caso, infatti, l’ufficio coinvolto aveva dovuto rettificare il maggior reddito all’impresa; il contribuente aveva vinto la sentenza di secondo grado, ma contro questa decisione si era opposta l’Agenzia delle Entrate, portando come motivazione la violazione del Tuir proprio in questo specifico ambito. Il comportamento antieconomico era dettato dal fatto che non veniva usato lo stesso criterio di addebito nei riguardi di una società del gruppo, un modus operandi che consentiva di ritenere tassabili gli interessi del caso.

 

Irap: taglio per aziende in perdita, ipotesi poco convincente

Il Governo ha intenzione di “spendere” un paio di miliardi di euro per tagliare l’Irap, ma c’è grande incertezza sulla platea di imprese che potranno beneficiarne; estendere il beneficio a tutte, infatti, rappresenterebbe una misura non solo dispersiva, ma anche di scarsa efficacia, ragion per cui nelle ultime ore si sta pensando di ridurre l’imposta alle imprese che chiudono il bilancio in perdita; questo al fine di evitare che sulle imprese in rosso lo Stato vada ulteriormente a gravare sul bilancio con il prelievo dell’Irap che, lo ricordiamo, non è un’imposta sul reddito. Ma trattasi di una buona idea? Ebbene, l’ipotesi di tagliare l’Irap alle aziende in perdita non entusiasma la CGIA di Mestre, la quale nei giorni scorsi, invece, aveva avanzato la proposta di tagliare l’Irap a quelle imprese con partita IVA ma senza dipendenti, ovverosia alle ditte individuali che, come tra l’altro emerso da alcune sentenze della Corte di Cassazione, l’imposta non la dovrebbero pagare in base al fatto che i titolari di queste micro imprese non hanno lavoratori a carico.

Conti bancari: ammessa la prova contraria del contribuente

Il Fisco ha la possibilità di determinare il reddito e imputarne il possesso a quel soggetto che dimostri di essere il reale percettore, al fine di dimostrare un quadro indiziario grave e preciso; il compito del contribuente, in questo caso, è quello di difendersi tramite una idonea documentazione probatoria. Queste sono le conclusioni a cui è giunta la Corte di Cassazione con la sentenza 21454, la quale ha accolto un ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate. La vicenda che ha portato a questo ricorso è nata a seguito dell’emissione da parte dell’ufficio di Pesaro di un avviso di accertamento nei confronti di una società a causa di un maggior reddito non dichiarato all’erario. Le indagini svolte dalla Guardia di Finanza avevano messo in luce numerosi scambi tra le società fiduciarie, soprattutto attraverso l’utilizzo di conti bancari e alcuni libretti al portatore.

 

Irap: autonomi senza dipendenti, proposta di abolizione

In Italia c’è un vero e proprio esercito di lavoratori autonomi che svolgono un’attività con partita IVA ma non hanno dipendenti; sono tantissimi infatti i lavoratori, giovani e meno giovani, titolari di una ditta individuale nata molto spesso a seguito di un rapporto di lavoro subordinato “camuffato”, visto che molti di questi soggetti hanno un unico committente. E visto che si parla di questi tempi di riduzione dell’Irap, perché non sopprimerla del tutto proprio a favore del popolo delle partite IVA senza dipendenti? A porsi la domanda, ed a formulare una proposta in tal senso, è la CGIA di Mestre, la quale tra l’altro ricorda come questi lavoratori autonomi paghino l’Irap anche se la Corte di Cassazione, con almeno quattro sentenze, si è espressa quest’anno in favore del “non pagamento” dell’imposta visto che questa classe di lavoratori, non avendo dipendenti, non gestisce un’attività che possa definirsi autonomamente organizzata.

La definizione agevolata estingue liti fiscali e recuperi d’imposta

L’ordinanza 21719 che la Corte di Cassazione ha provveduto a pubblicare lo scorso 13 ottobre è intervenuta in merito al patteggiamento col fisco: per essere più precisi, è stato messo in luce come la definizione agevolata introdotta dalla legge 289 del 2002 (la Finanziaria 2003) porta all’estinzione di qualsiasi tipo di rimborso, si tratti di liti fiscali o di recuperi d’imposta. In particolare, tale condono esclude la possibilità di recuperare l’Irap anche nel caso in cui il professionista sia aiutato da una sola dattilografa. La pronuncia della Suprema Corte si è resa necessaria a seguito di un avviso di accertamento Irap notificato a una ditta individuale: la Commissione del riesame aveva provveduto ad accogliere l’appello del contribuente, riconoscendo così ad esso il rimborso dell’imposta versata nei cinque anni precedenti.

 

Tassabilità indennità cambio sede: non c’è sempre sanzione

La Corte di Cassazione si è pronunciata in merito alla tassabilità dell’indennizzo, per il maggior canone di locazione, che viene corrisposto al dipendente che si trasferisce in un’altra sede lavorativa: la pronuncia 20631 della Suprema Corte, prendendo a riferimento l’articolo 51 del Tuir, ha sottolineato come la fattispecie vada senz’altro sottoposta a tassazione, ma l’applicazione della sanzione nei confronti del lavoratore, per omesso versamento dell’imposta dovuta, non è immediatamente automatica, ma deve dipendere dal fatto che vi sia stato dolo o colpa grave dello stesso soggetto. Dunque, la valutazione spetta al giudice di merito, caso per caso. La pubblicazione della pronuncia, la quale risale allo scorso 25 settembre, si riferisce proprio a un caso analogo in cui era intervenuta la Commissione tributaria provinciale di Milano; il contribuente in questione aveva provveduto ad avanzare ricorso di fronte alla Cassazione, mettendo in luce soprattutto tre motivi: anzitutto, la presunta carenza di legittimazione attiva, visto che sul datore di lavoro incombeva l’onere di sottoporre a ritenuta le somme (per la Cassazione tale motivo è infondato, in quanto non sono influenti in questo senso la sostituzione d’imposta sulla posizione e gli obblighi del lavoratore sostituito).

 

Cassazione: niente Tosap per la pensilina alla fermata del bus

La Tosap è la Tassa per l’Occupazione di Spazi ed Aree Pubbliche: ad essa sono solitamente soggette le occupazioni nelle strade, corsi, piazze e sui beni di proprietà del demanio o del patrimonio comunale e provinciale. La sentenza 20076 che la Corte di Cassazione ha provveduto a pubblicare lo scorso 18 settembre è entrata proprio nel merito di questa imposta: secondo la disposizione della Suprema Corte, infatti, la Tosap non va applicata alla pensilina collocata alla fermata dell’autobus di linea, nel caso in cui si è accertato che non sottrae spazio alla collettività, ma anzi agevola lo sfruttamento del suolo pubblico. La sentenza si è resa necessaria a seguito del ricorso, da parte di una società, contro due accertamenti del Comune per il pagamento appunto della tassa; tali avvisi si riferivano all’esistenza di pensiline di protezione dei passeggeri.

 

Il negozio senza scontrino viene chiuso anche con definizione agevolata

La definizione agevolata è stata introdotta, per la precisione, dal decreto legislativo 472 del 1997 (“Disposizioni generali in materia di sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie”): la sua presenza non impedisce, comunque, l’applicazione della sanzione di chiusura dell’esercizio commerciale, in caso di contestazione per la mancata emissione dello scontrino fiscale. In sintesi, è questo il contenuto della sentenza 19626 con cui la Corte di Cassazione si è pronunciata lo scorso 11 settembre, confermando, tra l’altro, l’orientamento già espresso dai giudici di legittimità. La sentenza ha portato chiarezza alla questione in esame, soprattutto dopo che era stato notificato un provvedimento da parte di un ufficio finanziario, al fine di sospendere l’attività di un negozio specializzato nella rivendita di generi alimentari.

 

Tasse locali: crescita a due cifre negli ultimi dieci anni

Nel nostro Paese il gettito fiscale dei Comuni è aumentato negli ultimi dieci anni ma decisamente meno rispetto al passato; la CGIA di Mestre, infatti, ha reso noto uno studio da cui è emerso come negli ultimi dieci anni le tasse comunali abbiano fatto registrare un incremento di poco superiore al 30%, di certo non confrontabile con il decennio precedente, quanto il tasso di incremento delle tasse locali registrava rialzi dell’ordine del 100%. Giuseppe Bertolussi, segretario della CGIA di Mestre, ha sottolineato come le Amministrazioni comunali in questi anni abbiano incassato meno imposte derivanti dai tributi locali, ma anche meno risorse legate ai trasferimenti provenienti dal Governo centrale. Tutto ciò, tra l’altro, ha comportato spesso un taglio ai servizi locali ma anche, altrettanto spesso, ad un aumento delle tasse comunali senza il riscontro dell’offerta di servizi pubblici adeguati.

Acquisti elevati e basse vendite: per la Cassazione è un indizio di evasione

L’ordinanza numero 14375 che la Corte di Cassazione ha provveduto a depositare circa una settimana fa è intervenuta per spiegare quali tipi di indizi possono essere addotti per parlare di una vera e propria evasione fiscale: in particolare la Corte, ritenendo ammissibile il ricorso al metodo induttivo per accertare l’imposta dovuta dell’Iva, ha spiegato che può bastare anche un solo, ma grave, indizio, ovvero la concomitanza di molte fatture di acquisto e di poche fatture di vendita. La sentenza della Corte si è resa necessaria dopo la richiesta di chiarimenti circa il caso di una società; quest’ultima, infatti, aveva la particolarità di registrare fin troppi acquisti, senza che corrispondesse, dall’altro lato, una stessa quota di vendite. Questo fattore aveva fatto sì, nel caso in questione, che l’ufficio Iva avesse provveduto all’accertamento dell’imposta e al recupero a tassazione, motivando il suo comportamento con l’ipotesi che una conduzione dell’impresa di questo tipo equivalesse a una forte presenza di evasione dall’Iva.

 

Canone: chi é senza decoder non dovrà più pagarlo

Chi decidera’ di non acquistare il decoder e quindi di non passare al digitale terrestre non dovrebbe piu’ sostenere la spesa relativa al canone Rai – annuncia il Codacons – Quando tutti i canali televisivi passeranno al digitale, il canone Rai non potra’ piu’ essere richiesto a quei cittadini che non acquisteranno il decoder, in quanto di fatto e’ lo stesso Stato che oscura a costoro la televisione, impedendogli di vedere qualsiasi canale.

Ricordate la vicenda di Gabriele Giunchi, il preside a cui non è stato concesso di non possedere una televisione? Forse per i prossimi che decideranno di non avere una tv in casa c’è una speranza di non pagare il canone.

La mancata comunicazione del cambio di indirizzo non viola il contraddittorio

La Corte di Cassazione, con una recente sentenza dello scorso 11 maggio (per la precisione si tratta della sentenza numero 10702) è intervenuta per disciplinare i casi in cui il ricorrente non adempia all’onere della comunicazione delle successive variazioni del suo indirizzo: tale evento infatti comporta l’impossibilità di effettuare la notifica da parte della commissione tributaria. La corte ha precisato che la notifica dell’atto presso la commissione viene consentita anche in questo caso, una volta terminati gli inutili tentativi di consegna e non comporta pertanto la violazione del principio di contraddittorio. La sentenza è nata dall’impugnazione di un avviso di accertamento, tramite il quale l’Agenzia delle Entrate era entrata in contrasto con una società in accomandita semplice a cui erano state contestate indebite detrazioni dell’Iva dopo il riscontro da parte della Guardia di Finanza di fatturazioni riguardanti false operazioni commerciali. L’appello presentato dalla stessa Agenzia non era andato a buon fine dato che risultavano alcuni fatti particolari: anzitutto, il difensore domiciliatario non era più iscritto all’albo, lo stesso liquidatore era irreperibile e non risultava alcun esercizio di attività imprenditoriale presso la società.

 

Iva: necessario documento originale per detraibilità

L’onere dell’IVA viene di fatto sostenuto dai consumatori in quanto essa é compresa nel prezzo dei beni e dei servizi che sono ad essa soggetti. Nel ciclo produttivo commerciale , tuttavia, l’IVA viene anticipata dai soggetti passivi di diritto dell’imposta che sono le imprese, le società, gli enti, gli esercenti arti e professioni contraddistinti da una partita IVA che è una sequenza di 11 numeri che identifica univocamente un soggetto che esercita un’attività rilevante ai fini impositivi. Il numero é composto dalla sigla della Nazione di appartenenza (IT per Italia) e da una sequenza alfanumerica o numerica, variabile da nazione a nazione.

Con Sentenza 25 febbraio 2009, n. 4502, la Corte di Cassazione ha stabilito che, al fine di poter dedurre i costi, non basta avere una fotocopia della fattura ma deve essere conservato in azienda anche l’originale o il fax (originale) del documento:

Le fotocopie dei documenti originali, che non risultino smarrite o distrutte per cause non imputabili al contribuente, non hanno lo stesso valore probatorio degli originali, apparendo anzi come una documentazione sospetta. Specialmente se non sono allegate le ragioni che giustificano la mancata esibizione degli originali.