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Aprire partita Iva all’estero con residenza in Italia

Una tipica situazione che può capitare a un contribuente italiano è quella di svolgere la propria attività professionale in un paese diverso dal nostro, mantenendo allo stesso tempo la residenza in patria: come ci si regola con la fattura e quindi con la partita Iva? Quanto appena descritto significa che la ditta individuale italiana ha trasferito la propria attività all’estero, conservando però la residenza fiscale nel nostro paese. Un trasferimento di questo tipo, comunque, non pregiudica in alcun modo la residenza dal punto di vista tributario.

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C’è però da precisare che in questa maniera la società o la ditta non possono diventare dei soggetti passivi ai fini dell’Imposta sul Valore Aggiunto (Iva); tra l’altro, il Decreto Iva (il Dpr 633 del 1972) spiega chiaramente come tale tributo debba essere applicato alle cessioni di beni e alle prestazioni di servizi che si svolgono nel territorio statale nell’esercizio di impresa e in relazione alle importazioni poste in essere da chiunque. Non è difficile comprendere come un’attività di tipo economico che si svolge in una nazione straniera non ha alcun vincolo dal punto di vista territoriale, ragione per la quale quanto viene realizzato è estraneo alla disciplina fiscale dell’Iva.

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In effetti, il titolare di questa ditta o della partita Iva deve pur assumere una posizione tributaria che sia valida per il paese in cui si è trasferito, con una sede locale in funzione della stabile organizzazione, oppure identificando il tutto con un apposito codice Iva locale. D’altronde, anche la Corte di Giustizia Europea si è espressa negli stessi termini circa due anni fa, quando si è trovata a giudicare su una attività nota e ubicata all’estero, sottolineando come la residenza privata del soggetto in questione sia rilevante. Il principio della tassazione universale, in conclusione, consente al titolare di rimanere un soggetto fiscale italiano.

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